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Giornalista corrispondente dall’estero: ha ancora un senso?

Immagine in bianco e nero di giornalisti che fanno un'intervista

Globalizzazione, mondo interconnesso, “questione di click”: sono le parole chiave per un qualunque dibattito sul giornalismo di oggi. Da sempre il concetto di informazione è legato indissolubilmente alle tecnologie di cui possiamo disporre e sarebbe dunque ormai banale raccontare quanto veloci viaggino le notizie, grazie alla diffusione del web: è “questione di click”, appunto. Ma che succede se le notizie che vorremmo conoscere accadono in un paese diverso dal nostro? In passato non c’era altro modo di raccontare l’estero senza viaggiare, dettare pezzi al telefono, escogitare modi per far arrivare il proprio racconto dall’altra parte del mondo. Se oggi, invece, per reperire informazioni, basta accendere il computer, ha senso ancora la figura del corrispondente dall’estero?

Bisogna ammettere che lasciare la propria scrivania, per immergersi in una nuova realtà, non è la stessa cosa che copiare una notizia dalle agenzie di stampa. Non può esserlo, se si vuole cercare di andare oltre le news-fotocopia, che spesso si ripetono identiche su testate nazionali e internazionali. Non può esserlo se si vuole cercare di raccontare con onestà le diversità di un Paese che agli occhi dei più appare come “un altro mondo”.

Ecco allora che acquista valore la presenza fisica sul campo, la figura del corrispondente.

È una missione fondamentale quella della corrispondenza che aiuta a fare luce lì dove non arrivano i social media e la velocità delle news: nella vita vera delle persone. Per questo la corrispondenza dall’estero è importante, anche per raccontare ambiti differenti dalle classiche notizie di cronaca o politica, come ho riscontrato nei miei anni a Gerusalemme come giornalista per un’organizzazione religiosa e per diverse testate italiane.

La spiritualità e il groviglio di identità, le persone che fanno la differenza nel cercare la pace, le realtà meno note di chi lavora nel silenzio per educare alla fratellanza le nuove generazioni di israeliani e palestinesi: sono storie che non si leggono sulle agenzie di stampa e che ho potuto conoscere solo mettendo piedi, occhi e mani su questa terra che chiamano “Terra Santa”.

Sarebbe stato impossibile per me raccontare la pandemia in Israele, senza averla vissuta sulla mia pelle, senza essermi misurata personalmente con i pregi e i difetti del sistema sanitario israeliano. Sarebbe difficile descrivere l’eccezionalità di celebrare la Pasqua con la comunità cristiana locale nel Santo Sepolcro a Gerusalemme, senza conoscere la spiritualità locale o vedere i pellegrini che baciano con le lacrime agli occhi la pietra dove, secondo le Scritture, Gesù di Nazaret fu sepolto e risuscitò.

Per questo credo che chi cerca di capire e raccontare le complessità di una terra che non gli appartiene, non possa farlo da casa.

Non si può negare però che, rispetto anche soltanto a trent’anni fa, la professione del corrispondente sia molto cambiata. La globalizzazione, l’incedere delle nuove tecnologie che comprimono il rapporto dimensionale dello spazio e del tempo a fronte dei costi sempre molto elevati del reporting e dell’analisi sul campo, hanno seriamente messo in discussione il ruolo e la “convenienza”, per le aziende editoriali, del corrispondente estero.

La domanda se la poneva, già nel 2010, Richard Sambrook in una ricerca per il Reuters Institute for the Study of Journalism dal titolo appunto “Are Foreign Correspondents Redundant? – The changing face of international news”. Sambrook scriveva nell’introduzione della ricerca: “[…] E ora stiamo entrando in una nuova era in cui potrebbero non essere più centrali nel modo in cui impariamo a conoscere il mondo (i corrispondenti ndr). Un’ampia gamma di pressioni sta minando il ruolo del corrispondente estero e fornendo opportunità – e imperativi – alle organizzazioni giornalistiche di adottare un approccio molto diverso alla gestione delle notizie internazionali. […]

E Sambrook continuava “[…] Come osserva John Maxwell Hamilton nel suo libro Journalism’s Roving Eye, “L’ultima fase nell’evoluzione delle notizie estere è arrivata con una rapidità straziante che non si vedeva dall’epoca della penny press “.

Le pressioni economiche dovute al mantenimento delle strutture di raccolta di notizie all’estero hanno visto il numero di uffici e corrispondenti ridotto costantemente dalle principali organizzazioni di notizie occidentali negli ultimi 20 anni o più […]”

E la ricerca va avanti ovviamente nell’individuare i limiti ed i cambiamenti della corrispondenza estera in un’epoca che, ricordiamo era quella della rivoluzione delle piattaforme digitali, del rimpicciolimento del mondo dovuto alla riduzione dei costi di spostamento aerei, al giornalismo dal basso, con grandi prospettive per il futuro.

Eppure la stessa ricerca di Sambrook pone dei paletti immaginando un futuro possibile per questa professione sebbene diverso da quello che era in quel momento. Di seguito parte delle conclusioni che, viste oggi, lasciano stupiti per la grande chiarezza e proiezione verso il futuro di quella analisi, in un momento in cui nulla poteva essere così chiaramente prevedibile.

“[…] Quindi quali sono alcuni dei cambiamenti alla corrispondenza estera che probabilmente vedremo nei prossimi decenni?

Per la maggior parte del ventesimo secolo, il corrispondente estero medio era probabilmente di sesso maschile, di classe media, lavorava con un alto grado di indipendenza fino a una o due scadenze al giorno, facendo affidamento sul supporto del personale locale in un ufficio ben finanziato. Erano una delle poche fonti di informazioni per il loro pubblico o lettori a casa, lavorando con poca trasparenza o responsabilità. La loro rete di fonti ammontava al massimo a dozzine. tendevano ad essere resilienti, individualisti competitivi. Probabilmente non parlavano la lingua del paese in cui risiedevano o avevano molti amici o contatti non professionisti nel paese, ma col tempo avrebbero sviluppato un certo grado di competenza specialistica.

In futuro, è probabile che i corrispondenti esteri siano molto più diversificati per genere, etnia e provenienza. Parleranno la lingua e avranno una conoscenza specialistica del paese prima di poter essere nominati. Potrebbero essere cresciuti lì o aver vissuto lì prima. Lavoreranno a più scadenze ogni giorno su più media (testo, audio e video), saranno fortemente collegati in rete con altri specialisti e con fonti pubbliche nella loro area di competenza. Avranno reti di centinaia di fonti. 

È più probabile che lavoreranno da casa. Si rivolgeranno a più pubblici in tutto il mondo e saranno consapevoli di non essere l’unica, né la principale, fonte di informazioni. Il loro ruolo riguarderà tanto la verifica, l’interpretazione e la spiegazione quanto la rivelazione.

Come tali avranno bisogno di abilità sociali e collaborative. Adotteranno misure per garantire che il loro modo di lavorare sia il più trasparente possibile al fine di conquistare la fiducia degli editori e del pubblico.[…]

Ed è quel ruolo di verifica ed interpretazione che Sambrook prevedeva per il futuro che, come scrivevo inizialmente, appare essere oggi determinante per la comprensione e contaminazione delle culture, se si vuole andare, come scrivevo, oltre le news-fotocopia.

Un altro studio del 2017, a firma di Michael Brüggeman dell’Università di Zurigo dal titolo “Diverging worlds of foreign correspondence: The changing working conditions of correspondents in Germany, Austria, and Switzerland”, pone la questione del ruolo dei corrispondenti esteri, sebbene lo studio sia delimitato a tre nazioni Germania, Austria e Svizzera dalle caratteristiche molto particolari nel mondo dell’informazione, quali un alto livello pro-capite di abbonamenti ai giornali ed una generale cultura più avanzata del pluralismo e della deontologia dei media.

Ed è nell’introduzione del Brüggeman che si pone la questione interpretativa e culturale:

“[…] Uno dei paradossi delle odierne culture dei media è la coesistenza di una crescente interdipendenza transnazionale nel campo politico, economico e culturale e livelli stabili o addirittura crescenti di campanilismo nella copertura di molti media: in Europa, la copertura estera risulta stagnante mentre si sta riducendo nei media statunitensi.

Il contenuto dei media, spesso, non rispecchia le interdipendenze globali ma i miti nazionali di sovranità. La mancanza di copertura estera non è così problematica in termini di accesso alle informazioni da altri paesi. Nell’ampio ambiente dei media digitali, sono disponibili più informazioni che mai.

La stessa abbondanza di informazioni, tuttavia, aumenta la necessità di dare un senso a queste informazioni. Pertanto, i corrispondenti esteri come professionisti che “gestiscono il significato” oltre confine sono più che mai necessari.

Più il mondo diventa globalizzato, più diventa rilevante la copertura straniera per la vita quotidiana delle persone.

In tempi di maggiore necessità di “copertura cosmopolita” e di “cosmopolitismo mediato”, è preoccupante che i corrispondenti stranieri sembrino essere diventati una “specie in via di estinzione”  e che lottano contro il deterioramento delle condizioni di lavoro.[…]

Lo studio poi si dipana su due filoni: quello del declino della tradizionale corrispondenza estera e quello della sua sostituzione con nuove forme di corrispondenza. Ma lo studio esamina anche i cambiamenti dal punto di vista dei corrispondenti esteri: quali tendenze si applicano al loro ambiente di lavoro personale? In tal modo, lo studio attinge alla conoscenza esperta dei corrispondenti, ma le loro opinioni sono ovviamente anche soggettive resoconti della realtà che necessitano di essere convalidati da studi che attingono ad altre fonti di dati.

Si scopre che non tutti i corrispondenti sono uguali riscontrando prove di mondi divergenti della corrispondenza estera a seconda del rispettivo contesto professionale.

Secondo i dati emersi dal sondaggio alla base del lavoro di Brüggeman (che ha coinvolto 721 persone), più del 60% dei corrispondenti sono uomini, abbastanza istruiti (il 94,3% ha seguito una formazione accademica, il 49%  è in possesso di un master e un ulteriore 11,7% anche un dottorato). Gli intervistati hanno in media 46,3 anni e 19,9 anni di esperienza professionale, di cui 12 anni come corrispondenti esteri. Due terzi dei corrispondenti intervistati sono dipendenti di una testata giornalistica, mentre il restante 34% lavora come freelance. Se, secondo questo studio, i freelance costituiscono ancora la minoranza dei corrispondenti di Germania, Austria e Svizzera, sarebbe curioso effettuare una ricerca simile che coinvolga l’Italia. Leggendo i giornali, infatti, sembra che sempre più giornalisti freelance siano gli autori di reportage dall’estero. Pur affrontando assurde condizioni di precariato e viaggiando senza garanzie o tutele, i freelancers hanno spesso più preparazione, ma una minore retribuzione. Lo stesso studio dell’Università di Zurigo rileva che gli stipendi dei corrispondenti variano molto, ma che il 27% dei corrispondenti a tempo pieno ha dichiarato un reddito netto mensile inferiore ai 1000 euro.

E con la ricerca di Brüggeman emerge chiaro un antro risvolto, economico, della questione “corrispondenti”: c’è una forte differenza tra i giornalisti con un contratto fisso e i freelance con un freelance su due che guadagna meno di 1000 euro.

Il precariato, la forte presenza maschile e l’età elevata, le disparità economiche sono problematiche che coinvolgono tutto il settore del giornalismo, ma spesso è prima di tutto il dipartimento esteri a fare le spese dei tagli ai costi delle testate giornalistiche. Eppure il mestiere del corrispondente non si può e non si deve accantonare.

Proprio perché il mondo di oggi è sempre più interconnesso, la politica e i fatti che accadono in altri paesi potranno avere una influenza maggiore anche nella nostra società.

Sforzarci di provare davvero a capire i processi e i popoli che consideriamo “altri” dovrebbe essere allora prioritario. E in questo può aiutare solo il corrispondente dall’estero.