Vai al contenuto

Alberto Abruzzese: “la tecnologia è la realtà aumentata in cui e con cui il sé si esprime”

Alberto Abruzzese

Il mondo delle rappresentazioni e dell’immaginario individuale e collettivo inevitabilmente si trasforma, si modella sulla base dei nuovi linguaggi e delle infrastrutture tecnologiche che li ospitano.

Siamo ancora in grado di comprendere i significati, i messaggi e le simbologie che ci giungono, spesso intermediate da algidi sistemi algoritmici e come interagiamo con essi, nel nostro esprimerci e rappresentarci?

Per Alberto Abruzzese, uno dei massimi esperti italiani della sociologia dei media e della comunicazione, scrittore e saggista, la tecnologia va vista “non come una potenza esterna al sé (persona, soggetto, genere umano, società ecc) ma la realtà aumentata in cui e con cui il sé si esprime (esce fuori).”

L’intervista nasce dall’osservazione del rapporto intenso, personale e costante di Abruzzese con le piattaforme della rete che quotidianamente interpreta ed interroga, lanciando provocazioni, messaggi che vengono affidati alla decodifica dei singoli, con la curiosità dell’esploratore e la profondità della competenza.

Prof. Abruzzese, per alcuni lo stato di permanente transizione che le tecnologie digitali ci propongono, influenza i modi del comunicare ed il modo in cui questi si riflettono soprattutto sulla rappresentazione del sé. La comunicazione oggi passa soprattutto le piattaforme social e specialmente i giovani sono approdati con Instagram e Tik Tok ad una comunicazione e rappresentazione del sé e della realtà fatto prevalentemente di immagini e di suoni (vedi Reuters Institute Digital News Report 2021, ndr). Qual è il punto di vista dal suo osservatorio personale?

Ci sarebbe da discutere già a partire da questa vulgata sulle differenze tra i media oggi a lavoro e in funzione (differenze socio-antropologiche a partire anche, ma non solo, dalla classica distinzione tra vecchie e nuove generazioni, vecchi e nuovi corpi diversamente potenziati dalle tecnologie a disposizione ma immersi comunque in un mix tra passato, presente e futuro). Infatti già è discutibile credere che i media generalisti come cinema e TV – quindi non solo il “nuovo” eppure ormai già “vecchio” social FB – manchino di campi semantici non alfabetici, espressioni e pulsioni non alfabetiche come immagini, suoni, tremore di voci e carni. Il mondo che ci narra, e che noi narriamo in una immensa bolla di traduzioni, non ha una sola scienza dei segni.

Comunque, schematizzando, il panorama di questa nostra intervista mi pare riguardare la natura ambivalente dei regimi di senso che l’epoca presente percepisce o tende a percepire (e fare percepire) come apertura oppure chiusura (a seconda dei punti di vista) tra i due rispettivi versanti di una loro sostanziale differenza mediologica. Attenzione! Se parlo di differenza sul piano mediologico, intendo dire che da vari anni ormai (quando la mia formazione benjaminiana e mcluhaniana entrò nella prospettiva di Pierre Lévy)  il mio orizzonte disciplinare non è più – e non può più essere – integralmente sociologico e dunque moderno: nel tempo lungo della civilizzazione umana l’abitare (abito, abitudini, possesso, per gli esseri viventi) è slittato via dalla terra alla società e infine ai media. Ora la loro digitalizzazione corrisponde al massimo di smaterializzazione dell’esperienza mondana: Hic manebimus optime oppure hic sunt leones? A noi la risposta da cercare.

Secondo un recente studio (Bhandari e Bimo, 2020) Tik Tok crea un modello pubblico di rappresentazione che è più fortemente diretto verso l’individuo e non, invece, verso un “pubblico” plurale. L’esperienza dell’uso di Tik Tok, quindi, è quella del coinvolgimento ripetuto con il proprio sé: il risultato è una connettività intrapersonale piuttosto che di connettività interpersonale. Questo modello di socialità, conclude lo studio, può forse essere definito il “sé algoritmizzato”, ovvero, intende il sé come derivante principalmente da un coinvolgimento riflessivo con le rappresentazioni del sé precedenti piuttosto che, come avviene tradizionalmente, con le proprie connessioni sociali. Quali gli effetti sulle rappresentazioni del sé?

Sinceramente il “sé algoritmizzato” mi pare smentire la posizione su cui da sempre mi sono schierato o tentato di schierarmi: l’idea che la tecnica non sia una potenza esterna al sé (persona, soggetto, genere umano, società ecc) ma la realtà aumentata in cui e con cui il sé si esprime (esce fuori). Semmai, invece di correre il rischio di restare ancora nel corpo morto e martoriato di Frankenstein, si dovrebbe dire il “sé algoritmico”.

Provo dunque a dire il motivo per cui l’impianto teorico adombrato nella domanda che mi si pone a me sembri debole e viziato esso stesso dal risultato epocale o contro-epocale al quale intende pervenire. Il discorso regge sul suo punto di partenza ma poi si sgretola. Provo a dirlo a mio modo, tagliando con l’accetta i campi e passaggi in questione. Intorno agli anni Cinquanta – dopo  l’Olocausto e la Bomba e solo pochi decenni dopo gli anni Trenta, ovvero l’apice dei media di massa – è accaduto che, nei contesti territoriali più progrediti sul piano delle tecnologie della comunicazione e di un corrispondente, interconnesso, sviluppo economico, si è assistito ad un forte salto di qualità delle piattaforme espressive di tipo spettatoriale, quelle per così dire originarie, fondanti. Ovvero quelle di tipo classico, barocco e romantico, in cui domina la frontalità: piazza e teatro come dispositivi di interfaccia tra sovrano e popolo: cinema (scrittura più immagine, realtà fisica più schermo) e televisione generalista (schermi in casa, nel cuore pulsante dell’abitare umano). Nel giro di pochi anni, dunque, il modello di comunicazione unidirezionale è entrato in una crisi irreversibile e ha dato luogo a una spettatorialità diffusa sempre più complessa in quanto determinata dallo sviluppo esponenziale dei consumi, dalla interconnessione mediale tra corpi e oggetti, desideri personali e merci, con la conseguenza inclusione di una massa di contenuti e valori espressivi. Da internet a l’internet delle cose: dall’organico all’inorganico. Massimo Di Felice ha elaborato una prospettiva che ha denominato “Cittadinanza digitale” e che trovo assai calzante: non come progetto (la “città” è roba da moderni, strategia politica per la loro sopravvivenza), ma come processo in atto: con-fusione tra persona e tecnica, ma anche mondo e tecnica.

Nei confronti del pensiero semplice la posizione di un pensiero complesso è allora ribaltata? E’ sempre più il secondo a spiegare il primo? No. E’ la specializzazione bellezza! Ecco, questa rudimentale bozza di ragionamento credo – spero – possa un poco servire a interpretare, valutare, l’algoritmo come la tecnologia che s’è resa ora più necessaria a soddisfare il punto estremo di deflagrazione di esponenziale crescita della complessità realizzatasi dalla riproducibilità tecnica alla riproducibilità digitale … non quella umana nel mondo ma quella del mondo nell’umano.

Lei vive quotidianamente i social network con grande curiosità ed anche con la tecnica dell’esploratore competente. Come vive questo rapporto mediato dalle piattaforme e dall’algoritmo?

Vivo come posso, come riesco, quella minima parte di mondo che scopro e mi si rivela, a misura delle mie competenze tecniche, sui vari linguaggi – istituzionali, sociali, economici, settoriali, personali – che popolano i social network. Rispondere a questo significherebbe dovere dialogare su una quantità infinita di mie motivazioni, comprese quelle professionali, cioè le mie abitudini di docente in mediologia. Questo, infatti, il motivo iniziale della mia scelta vocazionale per facebook (la mia nuova aula in rete, una volta perduta, per pensionamento, la mia vecchia aula tra quattro mura). Su una però penso sia opportuno soffermarmi, in risposta alla quantità di stereotipi ideologici che su ogni medium – dal più classico al più digitale – sembrano al momento convergere nel giudicarne esorbitante e insieme ingenua, ambigua, addirittura falsa, la navigazione. Il fatto è che navigando si scoprono nuove terre, territori sconosciuti. La mia frequentazione quotidiana di FB non resta colpita, emulsionata, dalla caotica iper nonché ipo-presenza di informazioni che raccoglie dalla globalità delle altre piattaforme mediatiche, analogiche e digitali, ma è invece assai prossima a vivere la sensazione di una primordiale – sofisticatamente  (algoritmicamente?) primordiale – economia del dono. Postare immagini, suoni e parole – così come essere analogamente postati – mi appare come una primitiva, davvero fondativa, economia di scambio simbolico: una dimensione, dunque, che non ha nulla di liberatorio, immersa com’è nella violenza che la genera come suo provvisorio antidoto, ma ha la preziosa qualità di gettare il mio corpo, la mia persona, nell’esperienza di un evento inemendabile.

Per concludere, una provocazione: “vincerà” l’umanità dell’individuo o il freddo calcolo dell’algoritmo?

La domanda si fonda su una contrapposizione che non posso condividere per le ragioni che ho cercato di dire. Dovrei ritenere praticabile una prospettiva ideologica condizionata ancora dai valori dominanti nelle etiche e estetiche della soggettività moderna (così ancora accade ma invece non dovrebbe accadere). Oppure – confidando sui fermenti del pensiero post- e anti-moderno, persino post-umanistico o addirittura post-umano – dovrei supporre valide le attuali credenziali di successo date da più voci a una socializzazione e a una civilizzazione maggiormente aperte a recepire o addirittura rielaborare i contenuti di un pensiero contro-moderno? 

Dovrei aderire a un pensiero che, con poche sostanziali variazioni, già la stessa Cultura tra ottocento e novecento ebbe modo di esprimere senza tuttavia alcuna speranza di riuscire nell’intento. Destinata a fallire tanto quanto il “principio speranza” che essa elaborò contro il Novecento: contro il secolo terribile. Dovrei condividere la credenza che esista una essenza umana – autentica e libera per propria natura eppure distinta dalla sua per me assai più autentica natura tecnologica? 

Sarebbe come chiedermi di credere in Dio, in un dio. 

In ogni caso mi pare comunque che invece la questione si ponga, si debba porre, in termini radicalmente locali, tutta dentro la singola persona, la sua carne (sempre più espansa) dentro la qualità della sua specifica “vocazione” interiore di fronte a ciò che la società la obbliga a “professare” in nome suo e insieme della propria stessa sopravvivenza psico-fisica. In quanto, a obbligarla al sociale, al lavoro sociale, è congiuntamente anche la sua stessa necessità di sopravvivenza, dunque anche il suo desiderio di potenza sull’altro da sé: violenza contro violenza. La domanda che mi poni può avere per me un senso solo guardando al fattibile di ciò che è il nostro essere umano. Scavare dentro i margini offerti dal sentire della singola persona, che soffre e fa soffrire la carne in cui è immersa. 

Vocazione contro professione, dunque. Si tratta di immaginare quanto l’orizzonte politico in cui si muove ed è mosso l’essere umano possa ancora resistere a mutazioni sempre meno strettamente antropologiche (antropocentriche o meno) dei mondi non umani in cui è incluso.