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La centralità della comunicazione e la metamorfosi delle classi politiche

Comizio sui social

La crescente importanza della comunicazione politica è un fenomeno che appare evidente anche ad un osservatore superficiale delle vicende pubbliche. La contesa tra le varie forze politiche, infatti, è costantemente accompagnata dalla registrazione dei consensi che ogni formazione politica riscuote. In questo modo il dibattito sui temi di attualità va di pari passo con le quotazioni in salita o in discesa nella informale borsa dei consensi che ciascun leader o ciascun partito riscuote.

Così, molte delle prese di posizione o delle iniziative delle varie forze politiche sono espresse o intraprese non perché coerenti a un determinato patrimonio ideale ma perché motivate dal loro prevedibile effetto sulle rilevazioni demoscopiche. Se questi sviluppi risultano chiari anche a chi non presta molta attenzione alle vicende politiche, per meglio comprenderli può risultare utile collocarli in una dimensione cronologica più ampia. 

In altri termini, per capire gli sviluppi recenti occorre rifare, sia pure brevemente, la storia di questa evoluzione. Una evoluzione che è legata ai modi in cui si articola e si sviluppa la partecipazione politica.

Le origini del fenomeno

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, con l’estensione del diritto di voto, che tende a diventare universale, si afferma il modello del partito di massa e di integrazione sociale. 

Questo modello di partito viene ritenuto adeguato a raccogliere il consenso rispetto a una platea di milioni di elettori. Si tratta di un partito strutturato, dotato di un programma politico definito, radicato in modo capillare sul territorio, con organizzazioni collaterali che inquadrano i vari segmenti della società (sindacati, sezioni femminili e giovanili, circoli per lo sport ed il tempo libero), che possiede organi d’informazione autonomi in grado di veicolare le proposte e le parole d’ordine del partito. 

Sotto quest’ultimo profilo il partito di massa persegue il monopolio informativo nei confronti dei propri iscritti o simpatizzanti. Si tratta di una prospettiva che anche l’avvento dei totalitarismi novecenteschi (comunismo e nazifascismo) non fa venire meno, ma paradossalmente rafforza perché anche in queste esperienze antidemocratiche resta centrale il monopolio informativo e di indottrinamento attraverso una propaganda capillare.

Il partito di massa dal secondo dopoguerra

Nel secondo dopoguerra il partito di massa, pur con fenomenologie diverse nei vari contesti nazionali, rimane il modello egemone delle moderne democrazie industriali. Dei segnali di crisi cominciano a manifestarsi a partire dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, perché quel modello partitico risulta meno rispondente rispetto all’evoluzione delle nostre società. 

Dal punto di vista che qui ci interessa la crisi del partito di massa è legata all’affermarsi di organi d’informazione generalisti, in primo luogo la televisione, che frantumano il monopolio informativo partitico, mettendo in crisi in modo irreversibile la macchina propagandistica autarchica. 

Per rispondere a queste difficoltà i partiti si rendono ben presto conto che non è sufficiente, e neanche essenziale, rendere più efficaci i propri organi di stampa e propaganda tradizionali, ma occorre assicurarsi un accesso costante alle reti di comunicazione non legate al partito, anzitutto a quelle televisive. Inoltre, le campagne politiche si professionalizzano, impiegando, in modo sempre più ampio e continuativo, esperti dei mezzi di comunicazione di massa. 

Questo trend evolutivo si andrà estendendo e consolidando nei successivi decenni. Si tratta di uno sviluppo che conoscerà una forte accelerazione con l’avvento dei social media. In questa sede non ci soffermeremo su questi aspetti, ampiamente delibati in una ricca pubblicistica, aspetti che si possono riassumere nell’efficace formula: “la comunicazione ha preso il posto della politica”. Proveremo invece, sia pure brevemente, a richiamare l’attenzione su di un altro versante della questione, di solito trascurato. La centralità della comunicazione, infatti, non ha riguardato solo i modi in cui si veicola la lotta politica, ma ha investito anche le competenze che un uomo politico deve acquisire.

La carriera del politico e il dominio incontrastato della comunicazione

In passato, chi voleva dedicarsi al mestiere del politico seguiva un cursus honorum abbastanza definito, per quanto non precisamente formalizzato. 

In genere, nei partiti di massa una prima selezione era data dalla militanza grass root in organi periferici del partito; le persone più motivate venivano promosse a incarichi di responsabilità ai livelli più bassi, per poi, se mostravano le doti adatte, salire man mano la scala organizzativa.

 Una funzione analoga di learning by doing era quella svolta nelle associazioni collaterali del partito (sindacati, organi di stampa, etc.). Inoltre, soprattutto nei partiti operai, dove una buona parte dei militanti non disponeva di una istruzione superiore, esistevano delle scuole di partito che fornivano una preparazione non solo ideologica ma anche competenze specifiche per assumere incarichi istituzionali (comunali, provinciali). 

Il percorso poteva variare ma nell’insieme i dirigenti locali e nazionali dei vari partiti acquisivano delle competenze politiche articolate. Ciascuno di loro possedeva, ad un grado più o meno sofisticato, quelle competenze generaliste che sono proprie dell’uomo politico e lo caratterizzano come uno specialista della convivenza umana. 

Ai nostri giorni, invece, e soprattutto dopo l’avvento dei social media la formazione di chi aspira ad entrare in politica si concentra in maniera quasi esclusiva sulla comunicazione. Come è stato efficacemente detto, oggi la politica è insegnata e “appresa nella sua natura di rappresentazione”, in questo universo comunicativo sempre più virtuale lo story telling prevale sul merito delle questioni e l’agenda setting risulta più importante delle soluzioni atte a fronteggiare i problemi. 

Così, per una malintesa idea della divisione del lavoro, l’uomo politico tende a perdere quei caratteri generalisti di cui si diceva, impoverendo il proprio bagaglio di competenze. Un impoverimento che non solo peggiora mediamente la qualità del personale politico, ma che sollecita un duplice tipo di dipendenza. Da un lato, il politico di grido, convinto che il successo discenda dalla comunicazione, è succube del proprio guru informatico, che gli detta le scelte da fare rispetto ai temi del giorno, togliendogli spazi di iniziativa autonoma. Da un altro versante, però, il medesimo esponente politico, data la crescente complessità delle macchine amministrative, è alla mercé degli esperti e dei tecnici che gli impongono le scelte operative su questioni rispetto alle quali non ha maturato gli strumenti per poter fare una valutazione ragionevole.

L’analisi che si è svolta in questa sede può suggerire un interrogativo che, a mio modesto avviso, merita di essere preso in considerazione. Occorre forse chiedersi se il discredito nei confronti di chi ha scelto il mestiere della politica, un discredito che si è accentuato in questi ultimi anni, non dipenda anche da questo incontrastato dominio della comunicazione.