Pensare al digitale come parte integrante della nostra vita quotidiana appare oggi un fatto scontato, un dato evidente.
Non era così dieci anni fa, quando la Commissione Europea finanziò un progetto per comprendere e valutare come la transizione digitale influiva sulle aspettative della società e sul suo sviluppo, costituendo un gruppo di lavoro composto da 15 studiosi di materie umanistiche (dalla sociologia alla psicologia ed alla filosofia) e di quelle più legate agli sviluppi della tecnologia come la fisica, l’informatica, l’ingegneria.
Il gruppo era coordinato da Luciano Floridi, filosofo, professore ordinario di Filosofia ed Etica dell’informazione all’Università di Oxford.
Il risultato di quel progetto fu l’ “Onlife Manifesto” (ebook scaricabile quì), documento che conteneva le valutazioni ed i risultati degli studi in ciascun settore esaminato, considerando l’impatto delle tecnologie su tutti gli aspetti della vita umana, e la significativa perdita di senso della distinzione tra i concetti di “reale” (life) e “virtuale” (online), giungendo al nuovo paradigma concettuale dell’ “onlife“.
Sembra passato un secolo o forse anche più. Non siamo più in grado di distinguere la nostra vita nelle due forme originarie, separate da confini evidenti e netti.
Abitiamo in un mondo dove il flusso delle nostre comunicazioni e della nostra vita scorre indistintamente tra le vie delle città ed i bit delle chat e delle piattaforme social.
Eppure sembrerebbe che una nuova rivoluzione stia per cambiare le nostre vite ed i paradigmi ed i riferimenti della realtà. Rivoluzione determinata dall’avvento dell’Intelligenza Artificiale e della annunciata nascita del Metaverso, evoluzione, intrisa di realtà virtuale, di Facebook e annunciata qualche settimana fa dal suo artefice Mark Zuckerberg.
29 ottobre 2021 – Mark Zuckerberg annuncia il cambio di nome di Facebook in “Meta” e la nascita del Metaverso
Se da un lato l’annuncio di Zuckerberg appare come una plausibile evoluzione anche tecnologica della sua piattaforma, restano invece oscuri i confini ed i significati di questo cambiamento: sarà un mondo diverso? Quali leggi ed algoritmi lo governeranno? Vivremo in una dimensione completamente virtuale?
Luciano Floridi, il filosofo dell’ “onlife”, è la persona più adatta e competente per aiutarci a capire questo nuovo mondo cui andiamo incontro e, per questo, gli abbiamo posto alcune domande.
La realtà, quella di tutti i giorni, vince cinque a due
Fino a qualche tempo fa vivevamo in un “mondo reale”, quello di sempre in carne ed ossa… e poi c’era il “mondo virtuale”, Internet e dintorni. Poi è diventato tutto “onlife”.
Oggi Zuckerberg ci dice che sta trasformando Facebook in un “metaverso”, un luogo, come ha affermato “dove invece di visualizzare i contenuti, ci sei dentro”. Sarà un mondo dove magari sentiremo profumi creati da una macchina, vedremo panorami virtuali, avremo sensazioni trasferite da sensori… Come lo immagina il filosofo Floridi?
Sono rimasto sorpreso da quest’idea non perché non fosse già nell’aria.
Zuckerberg insiste sulla realtà virtuale e sulla realtà aumentata da tantissimo tempo, da quando Facebook ha comprato Oculus, azienda che produce visori per la realtà virtuale.
Vedo quest’operazione con molto scetticismo, non per la tecnologia, quanto per la strategia che c’è dietro: è una bella copia di quello che abbiamo già, giochi di realtà virtuale, musei da visitare e luoghi dove sperimentare… Chi di noi, con qualche anno in più, non ricorda Second Life?
Insomma, cose che già conosciamo. Come si direbbe in inglese quasi una sorta di “soluzione in cerca di problema“, cose che sappiamo fare ma non ci interessano tanto. Arriva Zuckerberg e cerca ancora una volta di convincerci ad entrare in questo Metaverso, questa realtà tridimensionale dove la “vera realtà” sarà la realtà virtuale e il resto lo possiamo lasciare a casa.
Anche da un punto di vista tecnologico, quindi, mi lascia perplesso: non perché non vi siano oggi le capacità di realizzare cose di grande effetto, da un punto di vista visivo o acustico, ma perché è una cosa un po’ vecchia, che abbiamo già provato e che non ha avuto molto successo.
Noi torniamo sempre all’idea che abbiamo cinque sensi ma in realtà l’essere umano ha molti più sensori: ad esempio il senso, legato a quello dell’udito, dell’equilibrio. Ma anche se pensiamo solo al caldo ed al freddo, anche limitandoci ai cinque sensi, la realtà virtuale di cui parla Zuckerberg è una realtà bidimensionale: è visiva ed acustica.
Al momento non è immaginabile, anche se tecnologicamente fattibile, che ognuno di noi possa avere a casa una “stampante a profumo” e ogni volta che visualizzi un ambiente della realtà virtuale, ne venga fuori il profumo.
Per sintetizzare, concettualmente, la realtà, quella di tutti i giorni, vince cinque a due.
È l’interattività di qualcosa che rende quel qualcosa reale per noi
Tutto ciò che è vissuto dal nostro corpo è per noi realtà, sia esso biologico o elettronico… o esiste una differenza? Di significato, di valore, di scopo…
Cosa è reale per noi, è una domanda che ci affascina da sempre.
Un famoso filosofo diceva “la pietra esiste perché posso prenderla a calci”. C’è qualcosa di vero in questo e cioè il fatto che posso interagire con la pietra. Immaginiamo di andare nella cucina virtuale e prendere un bicchiere: non lo puoi afferrare, non lo puoi riempire d’acqua, perché è un ologramma, sarebbe solo un esperimento visivo.
È la nostra capacità di interazione con qualcosa, ad esempio il bottone rosso con cui posso interrompere questa videochiamata, che determina il senso di realtà di quel qualcosa per noi. La capacità di reazione con quello che si fa o non si fa che determina la nostra percezione di realtà. Anche afferrando l’ologramma di quel bicchiere nella nostra cucina virtuale con un guanto elettronico, la realtà fisica è insuperabile rispetto all’interattività che, anche in uno strutturalmente ineccepibile contesto 3D, io potrei esperire un domani.
Vorrei tuttavia anche parlare bene di tutto questo, immaginiamo i contesti bellici: magari meglio non esserci lì, non interagire con la pericolosità di una mina, oppure in contesti dove è necessaria la massima attenzione, un contesto medico o l’ingegnere che deve imparare il funzionamento di un motore, osservandone da vicino il meccanismo senza rischi.
Tutto questo non ha certo aspettato Zuckerberg, esiste da decenni, basti pensare a come si addestrano oggi i piloti da caccia delle forze armate italiane: lo fanno in modalità virtuale.
Per concludere, ritornando alla domanda, direi che è l’interattività di qualcosa che rende quel qualcosa reale per noi.
Il virtuale ti vuole bene, non senti freddo e non hai fame nel virtuale
Vivremo in mondi virtuali come immensi depositi di umanità perché il mondo attuale è già troppo piccolo e poco ospitale per 10 miliardi di persone?
Purtroppo è un grande rischio, una possibilità soprattutto per chi riesce ad ottenere questa tecnologia a costi molto bassi in contesti in cui la vita è veramente misera.
Non quindi per le persone che hanno grandi possibilità economiche, perché quelle potranno sempre andare in Costa Smeralda e non per chi non ha nessun mezzo, perché quelle non avranno la possibilità di acquistare il computer che serve per andare nella realtà virtuale.
Ma lo sarà per tutta quella fascia di mezzo in cui la vita è spiacevole: magari hai un brutto posto di lavoro, vivi in pochi metri quadrati, hai una vita fallimentare, non sei nessuno, pochi soldi. Pochi ma abbastanza per acquisire la tecnologia ed essere abile ed avere dei ruoli in questa realtà virtuale: quella è la fascia, ampia, di persone più a rischio per quello che in inglese si definisce “escapism” ovvero la fuga dalla realtà, da quella di tutti i giorni, quella di cui parlavamo prima della pietra da prendere a calci verso una realtà virtuale dove il mondo si adatta a te, tu non ti scontri con il virtuale, il virtuale ti vuole bene, non senti freddo e non hai fame nel virtuale.
Questo mondo che si plasma intorno a te, che non ti insegna la brutalità dei fatti ma che in realtà accomoda tutto un po’ come una sirena, è un rischio molto serio.
Lo vediamo già in alcuni contesti di addiction (dipendenza) cioè di eccessivo attaccamento di tipo ludico dove ragazze e ragazzi trovano lì qualcosa che non riescono a trovare più nella realtà di tutti i giorni.
Questo è un rischio serio.
Ci vuole la legislazione adatta. E sta arrivando
Ovviamente tutto questo sarà il frutto di sistemi tecnologici sempre più avanzati e basati sull’intelligenza artificiale. Esisteranno nuove regole che dovranno normare il rapporto tra intelligenza umana ed intelligenza artificiale?
In Europa oggi è in arrivo la legislazione che riguarda il contesto dell’intelligenza artificiale e quello che riguarda il riconoscimento facciale. Basta leggere la proposta di legislazione sull’intelligenza artificiale della Commissione europea che vieta molti usi del riconoscimento facciale, ad esempio quelli fatti per ragioni commerciali.
Quando Facebook dice “non useremo il riconoscimento facciale nel Metaverso” ad esempio, sta facendo un’operazione molto semplice, ovvero non fare qualcosa che la legge comunque impedirà di fare e, al contempo, che non serve: in una realtà 3D in cui so qualunque cosa di te, a che serve il riconoscimento facciale?
Attenzione quindi al fatto che l’intelligenza artificiale, che viene via via sempre più legiferata e controllata normativamente, può spostarsi su settori tecnologici non ancora mappati dalla legge che sarebbe anche una manovra economico-giuridica un po’ astuta.
Credo che questo sia un settore a rischio, ma anche un po’ neutrale.
È come l’elettricità: noi siamo dipendenti da esse in modo totale, immaginiamo cosa può accadere quando c’è un blackout in città e non funziona più nulla. Elettricità anche pericolosa: se metti due dita nella spina, rischi la vita. Ma è anche una tecnologia positiva che usiamo a buon fine.
Quindi ci sono dei rischi ma abbiamo messo i salvavita. Con quest’analogia, alla domanda se dipenderemo sempre più dall’intelligenza artificiale, io direi di sì.
Con il “machine learning” si avrà una strumentazione sempre più potente per far girare qualsiasi cosa: un giorno di questi anche la lavastoviglie avrà imparato come fare i piatti.
Questa nostra dipendenza ha dei pericoli? Assolutamente sì. Allora servono dei “salvavita”, elementi che, quando c’è qualche rischio eccessivo, salta il fusibile, si stacca la spina, non si arriva alle conseguenze più gravi. Questo è quello che la nuova legislazione sta per fare.
Questa dipendenza dovrebbe essere strettamente regolamentata per assicurare tutta la parte “buona”, che è quella che serve a gestire la complessità con strumenti sempre più complessi ma, al contempo, eliminare al massimo i rischi di tecnologie potentissime che, usate male, troppo poco o in maniera esagerata, nel contesto sbagliato, possono fare danni.
Per riassumere vedrei l’IA come una enorme capacità di risolvere problemi che, nelle mani giuste, con le condizioni giuste, può fare molto bene.
Ci vuole, ancora una volta, la legislazione adatta. E sta arrivando.
Il resto lo lasciamo ad Hollywood
Oggi si parla di intelligenza artificiale, di machine learning e della possibiltà per le macchine di “pensare”, primi germi di una potenziale coscienza. Mi sembra che lei, anche nel suo libro “Intelligenza artificiale. L’uso delle nuove macchine” non sia di quest’avviso…
No, proprio no. Siamo a volte un po’ preda di cattiva pubblicistica e di ottimo marketing, ovvero il fatto che queste aziende debbano sovrastimare, anche in maniera fuorviante, le capacità degli attrezzi che andiamo costruendo.
La realtà è invece diversa: via via che andiamo a trovare aree sempre più ampie dove l’intelligenza artificiale può fare la differenza, il limite è la nostra intelligenza nell’individuare dove e come adattare queste strumentazioni e a quali problemi.
Che si parli anche soltanto vagamente in senso metaforico, di pensiero, creare, coscienza, consapevolezza è una sciocchezza, come se parlassi con il frigorifero: sarebbe un po’ strano…
Pensiamo, ad esempio, alle suole delle scarpe: sono alcuni anni che stanno avendo una rivoluzione fondamentale, con l’inserimento di sensori che puoi collegare ad una app sul tuo smartphone e, sviluppate inizialmente per ragioni sportive, oggi hanno applicazioni nel contesto del benessere e della salute, straordinarie.
Immaginiamo, ad esempio, se la suola della scarpa, all’improvviso, cambia posizione: se tutte e due le suole non sono più in orizzontale, quella persona è caduta e l’applicazione comanda un allarme perché forse la nonna non è più in piedi.
Questo è l’intelligenza artificiale. Questo è il mondo in cui viviamo e questo è il tipo di mondo che dobbiamo capire e capire i problemi che l’IA sta generando. Il resto lo lasciamo ad Hollywood.
Questo è il futuro che vediamo ed è già in arrivo
E queste nuove norme potranno essere opache ed incomprensibili come gli algoritmi che oggi governano le principali piattaforme tecnologiche?
Le norme ci permettono di capire, da un punto di vista contestuale, quando usare o meno certi algoritmi, certe soluzioni oppure no.
Questi algoritmi hanno una loro opacità ma, anche quì, bisogna capire esattamente di cosa si sta parlando: non è che non sappiamo cosa facciano ma un algoritmo, che risolve un problema, è composto da tantissimi nodi connessi tra di loro e siccome gli equilibri tra questi nodi che permettono poi l’apprendimento, nel caso del machine learning, sono molto sensibili ad ogni mutamento, è molto difficile poter determinare cosa fa ogni nodo in ogni momento.
Per fare un esempio è un po’ come il traffico: spiegare perché diecimila persone sono ferme nel traffico, è impossibile per ciascun singolo individuo ma, macroscopicamente possiamo affermare che, essendo lunedì, le 8 del mattino, piove e le scuole sono aperte, c’è traffico.
Non potremo sapere in maniera granulare perché ciascuna persona si è messa in movimento per generare il traffico, ma questo non vuol dire che in generale non sappiamo perché si sia generato il traffico.
Questo è il modo giusto di parlare dell’opacità degli algoritmi, altrimenti sembra che stiamo parlando di Harry Potter di magia, con la bacchetta…
Quale potere sarà nelle mani di pochissime persone che gestiranno aziende che governano il mondo in cui vivremo?
Enorme. In altri contesti dicevo che gli abbiamo dato le chiavi di casa e quindi adesso, se vuoi entrare in casa, devi chiedere a loro. In altre parole controllano veramente questo mondo “onlife” dove si mescola ormai tutto, reale e virtuale e c’è una parte di questo mescolare che è in completo controllo di queste aziende.
La legislazione arriva a volte un po’ tardi, ma arriva. La potenza del legislatore è tale da poter chiudere oggi queste aziende, ma noi la usiamo con molta cautela. Si guardi ad esempio cosa è accaduto con il nucleare dopo l’incidente in Giappone: in Germania il settore del nucleare ha chiuso da un giorno all’altro, in virtù di quel potere.
Quindi la risposta alla domanda è: sì, hanno un potere enorme ma, come sta avvenendo sia negli USA con l’amministrazione Biden che in Europa, si sta arrivando ad una legislazione che limiterà o indirizzerà questo potere in maniera non pericolosa.
Questo è il futuro che vediamo. Ed è già in arrivo.
Giornalista e imprenditore da oltre 30 anni nel settore della comunicazione e dell’ICT, sono manager dell’agenzia di comunicazione Interskills srl.
Da sempre interessato alle tematiche del giornalismo e della sua transizione al digitale, scrivo ed ho scritto su diverse testate, tra cui Wired, LaRegioneTicino, Repubblica e L’Espresso, su cui ho un blog dal titolo “Culture Digitali”.
Membro del Comitato scientifico della Fondazione Murialdi per il giornalismo, coordinatore del progetto “Osservatorio sul giornalismo digitale” dell’Ordine dei giornalisti e docente per la formazione dello stesso Ordine .
Presidente Consiglio Direttivo “Media Studies”
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